martedì 13 giugno 2017

CHI SE NON LUI?

Kevin Durant è stato eletto MVP delle Finals di quest'anno, e non poteva esserci un vincitore migliore. In questo modo, si è liberato di tutte le etichette che gli avevano affibbiato.




L'atto di etichettare qualcuno ha uno stretto legame con la psicologia e con la razionalità, oltre che con lo sport. Perché quando si compie un'azione del genere si deve essere lucidi e accorti, dato che lo sbaglio non è ammesso.  Se si vuole etichettare qualcuno, infatti, si deve essere precisi, meticolosi e scrupolosi nel scegliere l'etichetta da affibbiare al soggetto in questione ed anche il momento adatto per farlo.
In fin dei conti, infatti, bollare qualcuno ha un tremendo effetto sulla psiche della vittima, in quanto essa inizia a diventare oggetto di insulti, scherno che si traducono in perdita di autostima. L'importante, per ritrovare quest'ultima e per staccarsi una volta per tutte dalla fronte un marchio pesante come un macigno, è vincere qualcosa, meglio se si tratta di trofei importanti. Pelé è stato bollato come "troppo inesperto e giovane" per giocare ai Mondiali 1958, che poi avrebbe vinto da protagonista; Ancelotti è stato chiamato "perdente" e "maiale" dai tifosi juventini, per poi prendersi la rivincita nella finale di Champions 2003 di Manchester battendo la sua ex squadra ai rigori: Roger Federer è stato dato come finito fino all'anno scorso, facendo ricredere tutti all'inizio di quest'anno, con le vittorie all'Australian Open, a Indian Wells e Miami. Un altro che ha dovuto subire questo trattamento è stato Kevin Durant, dal 4 luglio dell'anno scorso fino al 1 giugno di quest'anno, giorno dell'inizio delle Finals NBA 2017. E alla fine, come i suoi illustri predecessori, la vittoria gli è servita per farsi scivolare via quella fastidiosa etichetta che gli avevano incollato in fronte e che recitava "ETERNO SECONDO". Ed in effetti, pur essendo di cattivo gusto, i suoi detrattori non avevano sbagliato per nulla: Durant è arrivato secondo al Draft 2007, secondo nel 2012 alle Finali con Okc, sempre secondo dietro a Lebron nelle classifiche dei tifosi a proposito del più forte della Lega. Insomma l'etichetta non si sbagliava.
Nonostante ciò, però, KD ieri sera non ha vinto solamente un trofeo collettivo, ma anche uno individuale, che secondo me conta ancora più del primo. Ieri sera, infatti, il Commissioner dell'NBA, Adam Silver, gli ha consegnato il premio di MVP delle Finals, un premio che il #35 di Golden State non aveva mai conquistato nella sua carriera, nonostante le Finali le avesse già raggiunte nel 2012 quando giocava per gli Oklahoma City Thunder.
Mi sento di dire, e di essere d'accordo con i giornalisti che hanno votato, che quest'anno il trofeo non potesse non andare a Durant, che questo riconoscimento se l'è più che meritato. Un giusto premio per un giocatore che delle cinque gare complessive della serie non ne ha steccato una, nemmeno una, risultando decisivo nelle prime due gare in casa, nella terza fuori casa e nell'ultima e decisiva che ha preso luogo ieri. Anche nella devastante sconfitta in gara 4, in cui molti protagonisti di GSW sono spariti, KD è rimasto lucido e ha tentato in qualche modo di salvare il salvabile chiudendo con 35 punti, mentre Curry e Thompson sono rimasti sotto i 20.
Durant ha chiuso rispettivamente con: 38 punti in gara 1, 33 in gara 2, 33 punti in gara 3, 35 in gara 4, ed infine 39 nell'ultimo ed importantissimo match. Così facendo, l'ex stella di Oklahoma City è diventato il primo giocatore dal 2000 (in quel caso fu Shaquille O'Neal) a finire cinque partite con almeno trenta punti. Vincendo l'anello, invece, KD entra a far parte di quella ristrettissima élite di giocatori capaci di portarsi a casa sia il titolo sia la medaglia olimpica (tra questi David Robinson, Shaq, Alonzo Mourning e Kyrie Irving).
Questa stagione, in fin dei conti, è stata utilissima per il prodotto di Texas University, che è riuscito a completarsi come giocatore su tutte e due le metà campo. In quella offenisva, Durant è diventato molto più accorto, cinico, calcolatore di quanto non lo fosse già in passato, e sicuramente in questo il trasferimento agli Warriors lo ha aiutato togliendoli il ruolo di terminale offensivo primario e di conseguenza anche tutta la pressione che gli si scaricava addosso quando c'era da rilasciare il tiro finale. Andando a Golden State, infatti, KD ha potuto scegliere meglio gli attimi e gli istanti in cui colpire con l'affondo decisivo, come dimostra gara 3, e i momenti in cui affidare agli altri il gravoso compito del tiro chiave. Nella metà campo difenisva, Durant è migliorato ancora di più di quando già l'anno scorso aveva fatto, prendendo più rimbalzi, stoppando di più, e difendo in generale con più attenzione rispetto al passato.
Dal punto di vista personale, infine, KD si è calato fin da subito alla perfezione nel nuovo ambiente gialloblu, e il feeling con la città di Oakland non ha tardato a sbocciare. Un ambiente dove il gruppo conta più del singolo, il collettivo più dell'individualità, ha permesso a Durant di socializzare ed avere rapporti più profondi con i suoi compagni di squadra, ed in particolare con Curry con il quale KD ha avuto un feeling speciale fin dalla preaseason, rispetto magari a quanto accadeva in quel di Oklahoma City, dove ora più che suoi amici rimangono molti suoi nemici (primo di tutti Russell Westbrook).
Appena la sirena ha suonato l'ultima volta, Durant è andato a cercare Lebron per abbracciarlo e consolarlo, segno di enorme rispetto tra le due stelle più lucenti del panorama cestistico americano. Poi ha avvolto nelle sue braccia l'amico Curry, con cui ha condiviso tante battaglie quest'anno.
Infine, e questo non poteva mancare, l'abbraccio con la madre Wanda, definita dal figlio stesso il reale MVP, in quanto è stata quella che si è occupata della famiglia dopo che il padre li ha abbandonati.
Alla fine, l'ultima cosa che ha avuto tra le braccia sono stati champagne e birra. E a proposito di luppoli, lo stesso KD ha detto in conferenza stampa che non beveva così tante birre da febbraio, e che quindi il suo dilungarsi nei discorsi era dovuto a quello.
Direi in questo caso possiamo giustificarlo.

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